Che cosa succede quando un territorio cerca di imitare un modello proprio nel momento in cui quel modello sta andando in crisi, per giunta nel luogo dove è nato?
Milano, negli ultimi dieci anni, ha costruito la cosmetica del suo successo guardando a città come New York. L’Expo 2015 è stato l’innesco che ha trasformato la città da capitale produttiva a hub globale della creatività, delle imprese e del terziario avanzato. Ma insieme all’immagine internazionale è cresciuto anche il prezzo concreto dell’abitare.
Dopo l’Expo, i valori immobiliari e gli affitti hanno iniziato una crescita costante. Oggi Milano ha il costo al metro quadro più alto d’Italia (5.545 €/m², il 118% sopra la media regionale) e affitti che superano i 23,5 €/m².
Tutto questo è avvenuto in un lasso di tempo molto più ristretto, perché se New York ci ha messo trent’anni a diventare una città dove non si riesce più a vivere, Milano lo sta facendo in otto. Dove New York oggi sta cercando una via d’uscita, Milano sta ancora pedalando nella direzione opposta, convinta che la crescita coincida con la vitalità. La differenza sta nel modello di sviluppo: se a New York è bloccato e controllato dalla classe politico-finanziaria, interessata a mantenere limitata l’offerta immobiliare, il capoluogo lombardo ha puntato sulla rigenerazione urbana per trasformarsi in un paradiso a prezzo di costo per ricconi e immobiliaristi.
È proprio in questo passaggio che si inseriscono le inchieste giornalistiche degli ultimi anni e le indagini della magistratura: ciò che a Milano viene chiamato “rigenerazione”, talvolta, è stato mosso non dalla necessità di creare una città più vivibile, ma dalla possibilità di estrarre valore dalla città stessa. Il lavoro di Gianni Barbacetto, raccolto nel libro Contro Milano (Paper First, 2025) ha mostrato il lato opaco del “modello Milano”. La rete di relazioni tra grandi operazioni immobiliari, amministrazione pubblica e investitori ha prodotto un’urbanistica che spesso sembra rispondere più alla logica della rendita che a quella dell’interesse pubblico. La città è stata trattata come un mezzo per generare valore finanziario, più che come infrastruttura di vita condivisa.
Intervistato da SenzaFiltro durante il festival di Nobìlita, lo stesso Barbacetto ha delineato il meccanismo speculativo meneghino: «Secondo la narrativa ufficiale, Expo ha avviato un processo di ascesa inarrestabile per Milano. È solo storytelling. I numeri invece sono molto semplici: è costato 2 miliardi di soldi pubblici e ha incassato 700 milioni. È stato il lancio della londrizzazione di Milano, e anche se dal punto di vista della ricchezza portata alla città non è stato un granché, l’ha portata nel novero degli insediamenti più sexy del gotha urbano. Chi se n’è andato non ce la faceva più, e di fatto è stato espulso dal tessuto cittadino. Sala è riuscito a realizzare il sogno di Letizia Moratti, cioè di realizzare la città premium: nella classifica dei capitali immobiliari arrivati nelle città europee, Milano è prima. Questo si ottiene facendo pagare meno (a Milano ci sono gli oneri di urbanizzazione più bassi d’Europa) e considerando “restauro” la costruzione di un grattacielo, cosa che permette di tagliare ulteriormente i costi. A Monaco di Baviera, seconda città in classifica, gli operatori che investono le lasciano il 30% del loro profitto; a Milano lasciano l’8%».