Si scrive “size”, si legge “identity”

Inutile nasconderci, nel mondo aziendale è tutto un misurarsi e un misurare. Quanto fatturato, quanto EBITDA, quante persone gestite, quante linee di prodotto o servizi, in quanti paesi si è presenti. E il sottinteso è sempre lo stesso: “wow, così tanto?! wow, com’è impressionante!”. Niente di male, anzi potenzialmente un sistema (in)visibile di stimoli a […]

Inutile nasconderci, nel mondo aziendale è tutto un misurarsi e un misurare. Quanto fatturato, quanto EBITDA, quante persone gestite, quante linee di prodotto o servizi, in quanti paesi si è presenti. E il sottinteso è sempre lo stesso: “wow, così tanto?! wow, com’è impressionante!”. Niente di male, anzi potenzialmente un sistema (in)visibile di stimoli a crescere, a fare meglio, alla ricerca dell’eccellenza.

Tuttavia, ciò che trovo sempre più affascinante è la parte valoriale di un’organizzazione, il non detto, le competenze soft, l’atteggiamento. Detto in altre parole, l’identity aziendale. Ma quella vera, nascosta, quella che si misura tra le righe dei meeting e degli scambi di email, piuttosto che quella dichiarata nel documento di Corporate Identity.

E quello che trovo ancora più affascinante è cercare eventuali correlazioni fra le due visioni, quella “hard” (numeri, fatturati, linee di prodotto) e quella “soft” (valori, identity). In questa ricerca, mi sono imbattuto in un’analisi fatta da Bain, società di consulenza, su questo tema:”Barriers and pathways to sustainable growth: harnessing the power of the Founder’s Mentality. Uno dei meriti di questa analisi è che parte dall’intervistare alcune centinaia di manager e imprenditori di varie aziende, facendo loro una serie di domande su come raggiungere la crescita sostenibile. Emerge molto rapidamente il cosiddetto Paradosso della Crescita: l’85% degli Executive intervistati parla di ‘barriere interne’ come le più importanti e difficili da superare; i leader di 56 aziende in mercati maturi collegano un’eccessiva ‘burocrazia interna’ alla crescita in dimensione aziendale, indicando cioè che un’azienda più grande è spesso un’azienda più lenta e burocratica.

Chi è Davide, chi è Golia?

Facciamo quindi un passo indietro, a quando un’impresa nasce. Se realizza il bisogno di un certo numero di clienti, allora cresce e comincia a strutturarsi e a fare leva sulla scala, sia industriale che manageriale. L’obiettivo è quello di abbassare i costi senza compromettere la qualità, perseguendo l’efficienza attraverso un approccio il più possibile standardizzato. Fin qui tutto bene, anzi benissimo. Peccato che poi, in certi contesti, la scala e l’efficienza finiscano per diventare un limite più che un valore.

E nel frattempo, il panorama competitivo spesso si infittisce di aziende con forti elementi di imprenditorialità: contesto piccolo e dinamico, rapidità decisionale, micro-brand, aggressione di nicchie di mercato. Questa dinamica, vecchia come il mondo, negli ultimi anni si è acuita a causa di una iper-frammentazione delle scelte di acquisto e di consumo, sostenuta anche dall’avvento della tecnologia e dall’abbassamento delle barriere all’ingresso. Quindi, chi cresce e si struttura diventa spesso un Golia, attaccato da tanti piccoli Davide. Ma com’è che quel Davide si è trasformato in Golia? E’ una mutazione genealogica inevitabile?

Qualche settimana fa Jeff Bezos, il fondatore e CEO di Amazon, ha parlato proprio di questo nella sua lettera agli azionisti. Ha descritto il Day 1 (quello della nascita, degli inizi dell’avventura, dell’imprenditorialità e della “fame”) e il Day 2 (quello della stasi, dell’irrilevanza, del declino e infine della morte aziendale). Per descrivere uno degli aspetti delle aziende che concettualmente si trovano in Day 2, ha parlato di processi che diventano più importanti dei prodotti: “A common example is process as proxy. Good process serves you so you can serve customers. But if you’re not watchful, the process can become the thing. This can happen very easily in large organizations. The process becomes the proxy for the result you want. You stop looking at outcomes and just make sure you’re doing the process right. Gulp … The process is not the thing. It’s always worth asking, do we own the process or does the process own us?”.

Vedete come nella quotidianità del management, gli aspetti “hard” e “soft” si intrecciano, arrivando a volte a generare strani paradossi: “piccolo è bello”, “meglio rimanere originali a se stessi e piccoli”, “la crescita potrebbe essere un problema”. Davvero non c’è via d’uscita da questa trappola?

Una possibile soluzione, forse l’unica, ce la indica lo stesso Bezos, che è capo di un’azienda che nei numeri non è esattamente un Davide. Quando gli viene chiesto come mantenere l’approccio da Day 1 anche a 20 anni dalla fondazione e con crescita mirabolante come nel suo caso, lui risponde: “How do you keep the vitality of Day 1, even inside a large organization? Here’s a starter pack of essentials for Day 1 defense: customer obsession, a skeptical view of proxies, the eager adoption of external trends, and high-velocity decision making”.

Li trovo quattro spunti di riflessione molto utili in qualsiasi impresa e organizzazione.

In particolare il primo, restare focalizzati quasi ossessivamente sul cliente. Puoi essere un negozio al dettaglio o un’impresa miliardaria, ma nella tua identità questo elemento non può mai mancare.

 

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