Immaginate una strada di notte, un’autostrada, e un camion pieno di frutta e di verdura che, da una città del Lazio, raggiunge una del Nord. Milano, Brescia, Bergamo, poco importa. Quel che conta è che quel camion, partito da Fondi (Latina) poco prima dell’ora di cena o subito dopo, arrivi a destinazione, al mercato, entro le prime ore del mattino, in modo da garantire che la merce circoli nei posti previsti e arrivi sulle tavole di noi consumatori.
Alla guida c’è una donna, Raffaella Di Cicco, oggi quarantottenne, che il lavoro da camionista l’ha cercato, l’ha voluto, lo ama. Una parola, camionista, che al femminile o al maschile è uguale, eppure questo è un mondo in cui ancora prevalgono gli uomini, e se a guidare c’è una donna cambia tutto. Si deve dimostrare di poterci stare, su quel camion; di poter divorare quella strada chilometro dopo chilometro, minuto dopo minuto, senza esitazioni, e spesso facendo più di quanto il nostro corpo ci conceda.
Ci piacerebbe che questa fosse la storia di una donna che ce l’ha fatta, a emergere in un mondo maschile, strizzando l’occhio a una parità di genere che sembra non arrivare mai. E invece è la storia di una persona che, a causa di un lavoro che amava, si è fratturata la sesta e settima vertebra cervicale ed è diventata tetraplegica, perdendo l’uso delle gambe, delle mani, del tronco, dell’intestino e della vescica.
Oltre alle tantissime morti sul lavoro – di cui ci occupiamo nel reportage Chi resta dei morti sul lavoro – ci sono anche le storie di chi dopo un infortunio sopravvive, ma perdendo la sua vita di prima. E deve fare i conti con parti di sé che non torneranno più – non solo fisiche.